Francesca e gli amici

Racconto di G. Bruni*

L’ho conosciuta un 29 di febbraio. Ero uscito appena cessata la pioggia, mi ero fermato al tavolino all’aperto di un nuovo locale e stavo rileggendo svogliatamente il quotidiano lasciato da qualche cliente; speravo di riuscire a dare un significato alla solita giornata di suoni confusi, mentre rimbombavano dentro e fuori di me le voci dei passanti miste a quelle delle cameriere che cinguettavano le quotidiane sciocchezze. Fui catapultato improvvisamente nel locale da un branco di ragazzini urlanti che mi resero ancora più confuso e dissonante col mondo che mi circondava. L’apparecchio, che mi consentiva di udire suoni netti e precisi, mi confondeva invece quando subentravano più voci o parole mescolate a rumori: sembrava che mi trasmettesse messaggi nascosti, dandomi l’impressione che l’unico modo per difendersi dal caos fosse l’incapacità di intrappolarlo. Mentre le grida dei fanciulli si urtavano e si ammassavano nella mia testa, ho compreso ciò che fino a quel momento mi era sfuggito. Ricollegandomi con il mondo dei rumori, la protesi aveva preso a ripresentarli alla mente in modo fedele. L’audioprotesista mi aveva addestrato a interagire con l’apparecchio, a capirne la funzionalità e a vedere il risultato nell’ambito di un processo di adattamento, in modo che il fragore della realtà non travolgesse il mio fragile equilibrio. C’era da compiere ancora un passo in avanti. “Il fastidio che avverto in questo momento - ho pensato - è legato alle voci squillanti dei ragazzi. Devo imparare veramente a interpretare e filtrare le espressioni sonore del mondo che mi circonda. Dopo l’invasione dei suoni, devo accelerare il percorso della loro accettazione, riconquistarne i significati in relazione alla mia esperienza, oltre alla capacità di mediarne i contrasti”. Questi pensieri mi hanno rasserenato. E comunque, di fronte a tutta quella confusione non sono stato colto dal panico abituale, dalla voglia di scappare, perché ero troppo impegnato ad osservare la ragazza appena incontrata. Era impossibile non notarla. In mezzo a bambini sporchi di gelato e gonfi di risate, appariva assolutamente lontana. Un polo d’attrazione per le piccole pesti, che sembravano ammaliati come i topi dal pifferaio, e la cercavano e la chiamavano senza riposo. Calma, naturale, come se fosse assente pur trovandosi a neanche due metri dal mio tavolo, ella riusciva a controllare ogni movimento con la coda di mille occhi e sempre col sorriso sulle labbra. Sembrava che la totale assenza d’ordine che la circondava fosse il suo habitat naturale, anziché il contrattempo di un sabato pomeriggio e, a ben guardarla, pareva che tutto ciò le piacesse, anzi, che le fosse necessario. Ero ancora immerso nell’osservazione dei suoi gesti, quando improvvisamente, leggera com’era arrivata, la vidi andar via. Scartai subito l’ipotesi di raggiungerla e parlarle: alla mia età e con la sordità che mi accompagna, mi ero fatto un’idea di quello che potevo o non potevo osare, di ciò che mi era concesso e non, cercando di farmi notare il meno possibile dalla vita. Ad un tratto l’ho vista, come in una scena al rallentatore, fermarsi in mezzo alla strada dove stava facendo attraversare i bambini, incurante delle auto che le sfrecciavano intorno e degli automobilisti che inveivano contro il branco di marmocchi che avevano invaso le strisce: era rimasta ferma, concentrata ad ascoltare se stessa, una smorfia sul volto, i bambini che sciamavano impazziti... In quel momento…il peso della sua apparente, inspiegabile solitudine mi apparve istintivamente più grande del peso della mia. Corsi verso di lei con le suole incerte che battevano l’asfalto ancora bagnato e con in testa le parole di una canzone sudamericana di cui ignoravo il senso, ma che assecondava il ritmo di quel pomeriggio. La raggiunsi in fretta. Non so come, riuscii a convogliare il gruppetto di piccole pesti dall’altra parte della strada, tenendo lei per una mano. Le ho detto con il fiato in gola per la corsa e l’emozione: “C’è qualche problema?”. Lei mi ha guardato con aria interrogativa, mentre una lacrima le rigava il volto e i bambini si erano fermati attoniti nel vederla piangere. Sorrise appena, ma bastò per riscaldare di nuovo tutta l’aria. Solo allora notai la protesi che portava dietro l’orecchio: era una di quelle moderne, automatiche, di colore grigio e dalla forma sottile e stilizzata. Si era bloccata in mezzo alla strada perché per un istante il suo apparecchio, forse a causa della batteria scarica, aveva smesso di funzionare, trasportandola dal caos di una qualunque giornata in un centro cittadino al silenzio assoluto. Un’interruzione di pochi secondi che le aveva lasciato un senso di paura e di smarrimento sfociato in pianto sommesso. “M’è successo come quando, da ragazzi, ci si lanciava per scherzo nell’acqua per ritrovarsi improvvisamente sommersi in mezzo a rumori sconosciuti”. L’ascoltavo a dispetto delle voci dei bambini e mi sentivo vivo. Le sue parole non mi annoiavano perché capivo bene di cosa stava parlando. Glielo dissi e lei s’illuminò come una bambina, per tornare triste il momento successivo. “Anche tu...” Passato il momento dell’euforia iniziale, il coraggio mi venne meno e sentivo la mia voce affievolirsi, fino a non percepirne quasi il suono, mentre intorno a noi il rumore del traffico, fino a poco prima dissolto dalle nostre voci, aveva riacquistato tutta la sua invadenza. La confidenza spontanea era stata sostituita da una lancinante timidezza: stavo quasi per andarmene, convinto che per me l’età dell’oro e i treni da non lasciarsi scappare fossero ormai soltanto un ricordo intriso dell’amarezza di non essere salito sul vagone giusto. D’improvviso lei mi chiese di lasciarle il numero di telefono: glielo scrissi sul retro dello scontrino del bar e mi feci dare il suo. Poi se n’andò, leggera com’era arrivata, con lo sciame di bambini che adesso ci guardavano incuriositi, in silenzio, non avendo ben compreso l’evento che si era consumato a quell’angolo di strada. Sono arrivato a casa stranamente leggero, con un senso di nuvole che si dissolvevano dentro. Non ho cenato, sono andato subito a dormire. Nel sogno ho rivissuto l’attimo in cui mi ero sentito utile per qualcuno senza ispirargli pietà. Ho dormito di un sonno bambino. La mattina dopo mi sono svegliato prestissimo, animato da una nuova energia: mi sembrava di aver da fare cose grandi in quella giornata nuova di zecca e volevo che anche Francesca ne facesse parte. Finalmente alle dieci riuscii a prendere la cornetta in mano e a telefonarle. Le ho chiesto se avesse impegni particolari. Mi ha detto di no e le ho proposto di andarcene al mare, a Viareggio, per cogliere il sentore di quella giornata di fine febbraio così vicina alla primavera. Siamo partiti con la mia macchina. Lungo la strada che attraversa la macchia di Migliarino i pini marittimi ci salutavano, esultavano alla brezza frizzante che pervadeva l’aria, mentre l’universo aveva per un attimo smesso di mormorare alle nostre spalle rumori incomprensibili, ci sentivamo di nuovo padroni delle nostre vite. Francesca mi raccontò di sé, con poche frasi che alternava a slanci improvvisi d’allegria. Faceva l’insegnante in una scuola elementare. Mi raccontava che fin da bambina giocava a far la maestra con i più piccoli, finché da grande aveva poi scoperto la magica sensazione del saper trasmettere la conoscenza a creature giovani. La sua sordità era apparsa verso i dieci anni e da allora era lentamente progredita fino a richiedere l’uso dell’apparecchio verso i trenta, all’apice della sua carriera d’insegnante. Lei aveva sempre cercato di ignorare che stava perdendo la sensibilità uditiva, finché una volta le capitò, durante una gita scolastica, che non sentì la voce di un bambino che inavvertitamente si era chiuso dentro il bagno. Poteva sembrare un episodio banale, ma Francesca rimase sconvolta dall’impotenza in cui l’aveva gettata quella nuova condizione. Con i bambini, anche da sorda non era difficile comunicare. Le bastava uno sguardo per comprendere le loro esigenze. Le risposte non sempre dovevano essere parole né gli interrogativi erano solo verbali. I bambini capivano. Evitavano di parlare tutti insieme dal banco, si recavano uno per volta alla cattedra e parlavano lentamente, con voce chiara. I problemi insormontabili accaddero nelle assemblee, durante i collegi dei docenti, negli incontri collettivi con i genitori. Il brusio di fondo, le interruzioni, l’alterazione della voce da parte di alcuni le impedivano di seguire il senso del discorso. Doveva interpretare e integrare con la mente le parole che perdeva. Per non rischiare di sbagliare evitava di prendere la parola, sedeva nelle ultime file. Un giorno si accorse di non farcela più a sostenere questa fatica. Prese un anno d’aspettativa dal lavoro, quello che lei oggi definisce “il mio anno sabbatico”. Vegetò per un po’, infine reagì, poi vegetò di nuovo, finché una sua vicina, forse inviata dalla madre, le portò una bambina, Amelia, affetta da sordità irrecuperabile fin dalla nascita. Le chiese se poteva darle lezioni private perché a scuola proprio non ci voleva stare. “Con Amelia - mi confidò Francesca - tutte le mie inibizioni sulla sordità svanirono: il suo entusiasmo nel volere imparare tutto ciò che il sapere può offrire e anche di più era commovente. Di fronte a lei mi vergognai dei miei complessi e gradualmente accettai me stessa, la nuova me stessa, che da insegnante “di grido” era diventata una persona timorosa di andare a fare la spesa. Pochi giorni fa Amelia mi ha telefonato per dirmi che sta per laurearsi”. Ascoltando Francesca ripensavo alla mia infanzia inizialmente libera da pensieri, apparentemente uguale a quella di tutti i bambini, e poi gradualmente sempre più carica di pesi e sempre meno serena. Era un alternarsi di sensi di colpa (cosa ho fatto per meritarlo?), rabbia (perché io e non altri?), isolamento, solitudine, (se non riesco ad essere come gli altri, meglio stare da solo) che hanno preso ad accompagnarmi fino all’adolescenza. Si è radicata dentro di me la convinzione di essere limitato non solo per il fatto di non udire, c’era qualcosa di più: un senso di lontananza e di non appartenenza al mondo in cui il non sentire a volte ti trascina. Ero più lento dei miei compagni nell’apprendere e al tempo stesso più svogliato, distratto, non m’impegnavo in nessuna materia sebbene fin da piccolo amassi molto tutto ciò che aveva a che fare coi numeri e col calcolo e mi dilettassi in progetti fantastici di ponti, case, grattacieli. La scuola media trascorse in assenza di reali progressi e con l’ipoacusia che peggiorava inesorabilmente. Spesso preferivo far finta di non aver studiato piuttosto che rivelare ai professori che non capivo le loro domande se non alzavano la voce. La svolta arrivò in prima superiore. Il primo giorno, dopo che avevo consumato le suole prima di decidermi ad entrare in classe, trovai Marco seduto nel banco accanto al mio. Egli soffriva d’ipoacusia grave dall’età di tre anni, portava già due apparecchi acustici con disinvoltura e, così giovane, sembrava muoversi benissimo nel difficile universo - come lo chiamo io - delle “sillabe mancate”. All’inizio mi sembrava il solito superficiale che non ha ben compreso quello che gli sta capitando, ma poi a poco a poco mi conquistò. “L’ipoacusia è una condizione impagabile” diceva suscitando la mia meraviglia. Noi possiamo ascoltarci dentro quando lo vogliamo, basta togliersi l’apparecchio ed è fatta! Chiudi gli occhi e improvvisamente hai intorno a te il niente acustico, come non appena ti tuffi e, se ascolti attentamente, il mare comincia a parlarti. Nel silenzio emergono nel tuo orecchio fischi o ronzii che sembrano casuali, ma in realtà sono il rumore “da dentro” del corpo, del cervello che pensa, del tuo cuore che batte. Non è straordinario?” M’incoraggiò così a parlare seriamente dei miei problemi d’udito con il medico di base e poi con l’otorino. Nella sala d’aspetto del reparto di audiologia c’erano tante persone d’età diversa, la maggior parte giovani, alcuni conversavano fra loro, altri erano avvolti come me nella propria cappa di silenzio. Quando è arrivato il mio turno, un giovane medico ha riempito la scheda e si è fermato a parlare con me spiegandomi il significato e la natura delle varie prove audiometriche nelle quali sarei stato impegnato. Dopo questa visita fui affidato ad un tecnico socievole e paziente che mi ha guidato nelle prove di ascolto di tutti i tipi di suoni e, a volte, di rumori attraverso l’uso delle cuffie dentro una cabina. Seduto ad una consolle, il tecnico trascriveva le mie risposte ed inseriva i dati di ciascun esame su un computer. Infine l’audiologo, osservando i risultati delle prove: “siamo un po’ sordi, ha detto. Niente di grave. Può provare senza impegno un apparecchio che risolverà questo problema. Dovrà abituarsi di nuovo ai suoni gradevoli, ma anche ai rumori e alle dissonanze, selezionarli e interpretarli. All’inizio, troverà di essere precipitato in una babele”. “Che cosa devo fare?” “Allegati ai risultati degli esami le unisco la prescrizione per un apparecchio acustico che potrà applicare parlandone con un esperto. Le consiglio di contattare un audioprotesista di sua fiducia per farsi aiutare nella scelta e nelle problematiche relative all’applicazione e all’adattamento successivo”. Ho seguito il consiglio e ho contattato alcuni audioprotesisti. L’esperto a cui ho dato fiducia ha scelto insieme a me l’apparecchio, me lo ha fatto costruire su misura, lo ha messo in prova e mi ha addestrato con pazienza all’uso e all’accettazione della protesi attraverso alcuni incontri durante i quali ha ascoltato le mie difficoltà, ha risposto alle richieste di consiglio e ha arginato i miei atteggiamenti di sconforto. Riconquistata la capacità di udire i suoni della realtà che mi circonda, ho imparato anche ad escluderli quando lo ritenevo necessario per dare ascolto ad altro. Liberi dalla paura delle parole degli altri, forti della capacità di ascoltarle o isolarle, Marco ed io abbiamo intrapreso insieme un percorso che ci tiene in contatto ancora oggi e che ha portato me a laurearmi in ingegneria, e lui a sviluppare quella sua meravigliosa creatività nella pittura, che diventa soffio vitale quando riesce a comunicare non solo il bello ma anche ciò che lo spinge a cercarlo. Marco ci attendeva all’ingresso della mostra. Non si curava dei clienti, dei numerosi ruffiani e degli spendi-parole-ma-non-soldi della domenica che già se lo contendevano e roteavano per le sale in un turbine di confusione. Era vestito da artista, con pantaloni troppo larghi da quattro soldi e un ridicolo cappello sulla testa, non in tono con la ormai numerosa clientela e con la fama che lo accompagnava, ma in linea con se stesso. Ci accolse con lo sguardo da eterno ragazzino. Gli presentai Francesca, che già conosceva la storia della nostra amicizia, e dopo neanche cinque minuti eravamo davanti all’ultima sua opera a chiacchierare fitto, suscitando l’invidia di tanti e l’irritazione del gallerista, tutto preso a mettere bollini ai quadri venduti, fissare i prezzi e le consegne, in un vortice di chiacchiere, salatini e cocktail. L’ultimo quadro di Marco rappresentava una bottiglia vuota in riva al mare, ripiena per metà di cielo e per metà di niente, mentre le onde le scaricavano sopra la loro schiuma in una giornata elettrica senza riposo, con nuvole grigio-azzurre gonfie di pioggia o di annunci di primavera. S’intitolava: “Da grande”. Francesca domandò cosa rappresentasse il particolare che si vedeva in lontananza, in mezzo al mare, poco visibile per via della foschia. “Rappresenta un uomo, me o un altro, o forse un insetto o una pianta o un apparecchio acustico…, di sicuro qualcosa che pur facendo parte della situazione ha una posizione a sé, lontana dal fulcro della scena. Sai, di tante persone che oggi si sono precipitate qui per vedere questo quadro, anche critici affermati o fini intenditori, tu sei la prima che ha la sensibilità di notare anche il particolare che rimane “al di fuori...” Fui orgoglioso di Francesca. Tutti e tre capimmo il senso reale delle parole di Marco: essere ai margini del mondo ti colloca in una posizione scomoda, ma anche unica. Dal tuo margine puoi, infatti, comprendere qualcosa che chi sta al centro non può vedere e che pure è indispensabile per dare un significato alla scena, che poi è la vita stessa. Uscimmo a fine mostra ridendo degli ignari attori al centro della scena e andammo a mangiare sulla spiaggia, come tre amici qualsiasi in una domenica come tante. Dopo mangiato andammo a riposare a casa di Marco. La sera ci saremmo ritrovati per un concerto seguito da una cena in una taverna sul porto. Marco si era trasferito al mare subito dopo aver messo insieme i primi guadagni con i suoi quadri. All’inizio era stata dura. La sua famiglia, terreno fertile di un’infanzia felice, preoccupata che un ragazzo affetto dal peso dell’ipoacusia s’imbarcasse in un mestiere “sconsiderato” come quello del pittore, aveva tentato di ostacolando in ogni modo. Ha frequentato la Facoltà di Lettere, si è laureato con centodieci e lode ma non ha mai abbandonato il pennello e i colori, soprattutto non ha abbandonato il suo ricco mondo interiore. Atteggiamento che lo ha salvato dall’aridità di una condizione che può diventare terribile, se la sensibilità diventa strumento dell’isolamento e della solitudine. “Se essere sensibile ti porta a sentirti non orgogliosamente, ma terribilmente diverso, è ora di cambiare rotta”, mi ha sempre detto. Ci siamo trovati puntuali, Francesca, leggera e svagata come un’adolescente alla sua prima uscita con gli amici, Marco, che aveva una tenuta da elegante gentiluomo, e io, sorpreso e ubriaco dell’improvvisa leggerezza di quella giornata. Il concerto si teneva al teatro di Viareggio. Si trattava di un mosaico di vari pezzi di musica classica, da Beethoven a Brahms, da Mozart a Strauss, che Francesca ben conosceva, perché da ragazza aveva studiato pianoforte e li aveva suonati più volte. Ancora oggi mi meraviglio, quando vado ad un concerto: io che da adolescente ero arrivato al punto di pensare la mia vita al di là d’ogni forma di normalità (guidare, saper badare a se stessi…), ero addirittura seduto in mezzo ai privilegiati che avevano l’onore di ascoltare e gustare brani dall’armonia senza tempo. La mia capacità di ascoltare era diversa in parte da quella degli altri, ma non mi sentivo più la “nota stonata” e sapevo inoltre individuare la nota mancante - il silenzio, il mezzo tono – che nessuno dei normali sarebbe riuscito a riconoscere. Ritornando il giorno dopo alle sensazioni vissute durante il concerto, ho pensato che avevo riconquistato la capacità di recepire i suoni della realtà che mi circonda, che avevo costruito un personale modo di interpretarli. Il cammino era stato lungo. Ricordavo gli anni dell’università durante i quali avevo ceduto più volte allo sconforto, soprattutto quando, durante le lezioni tenute dentro aule troppo ampie ed affollate, s’instaurava un orribile brusio, terribile sofferenza per me che facevo fatica a non rimanere frastornato dalla confusione dei suoni. Dopo circa mezz’ora dall’inizio, quando cominciava a crescere il brusio che precedeva i silenzi della conclusione, il mio apparecchio di allora, un po’ primitivo, si ribellava all’anarchia dei rumori: suoni che provenivano da destra cozzavano con altri provenienti da sinistra, da dietro, da fuori delle finestre. Mi sentivo bombardato da elementi sconosciuti, avevo la sensazione di essere trasportato a forza su una giostra del luna-park su cui non ero voluto salire. Scappavo fuori dell’aula, suscitando l’ilarità di qualche gruppetto di studenti e chiudevo la porta alle spalle, sudato e impaurito. Poi m’incontravo con Marco, mi sprofondavo nello studio, sostenevo un esame in modo particolarmente brillante e la vita riprendeva come prima, ma ho sempre avuto e conservato quella paura che d’improvviso il mondo indossasse la maschera che conoscevo. Ma poi ho compreso che il dolore, l’insicurezza, la paura che avevo provato e che a volte provo, non erano diversi da quelli di chi sta al centro della scena, e che la sensazione che il mondo indossi d’improvviso questa maschera inquietante, era comune ad ogni essere umano. La musica si diffondeva per la sala trasportandomi dentro la mia vita passata e mi sembrava che tutto, proprio tutto, avesse concorso a farmi arrivare al momento che stavo vivendo. Magari è stato solo un attimo di sicurezza assoluta. Ritorneranno i complessi, le angosce, le sensazioni d’inadeguatezza, ma ormai mi sono abituato alle oscillazioni e riemergo dalle fasi negative quasi intatto e gratificato dal confronto prima-dopo. I commenti di Francesca e Marco mi tolsero dal fiume di pensieri in cui ero immerso: il concerto era finito. Le luci che si erano riaccese ci mostrarono l’immagine di noi tre come aristocratici spettatori di un concerto. Mi sembrò tanto buffa che scoppiai a ridere forte, suscitando l’ilarità dei miei due amici che avevano compreso benissimo ciò che pensavo e lo stupore degli altri spettatori che mi guardavano come se fossi completamente “spostato”. La cena si annunciò meravigliosa fin dallo scenario. Marco, da pittore quale era, sensibile ai cromatismi e alle sfumature, aveva scelto un locale immerso in un ambiente surreale: una piccola costruzione bianca e azzurra sul mare, proprio alla fine della passeggiata. All’interno c’era un’accozzaglia di colori e suppellettili d’ogni tipo lasciate lì per caso, ma in realtà frutto di una disposizione attenta all’estetica quanto alla comodità. Scoprii più tardi che il locale era una casa oltre che un ristorante. Lì vivevano Maurizio, il gran capo, la moglie, addetta alla cucina, e il figlio Andrea che di tanto in tanto dava una mano. Marco amava molto sia quel locale che la famiglia, perché nel momento in cui lui non era ancora corteggiato da galleristi e amatori d’opere d’arte, loro avevano rappresentato l’ancora di salvezza che lo aveva distolto dal pensiero di abbandonare ogni sogno. Aveva incontrato Maurizio al porto: Marco aveva vissuto per l’ennesima volta il rifiuto di una sua collezione di quadri con cui pensava di allestire la prima mostra. Erano tre mesi che abitava a Viareggio ed altrettanti che sperava che le cose volgessero al meglio. A casa raccontava bugie, per non dover subire, oltre alla delusione personale, anche il peso dell’ansia dei suoi, che lo vedevano inadeguato a vivere là da solo come un “vagabondo”, un “artista”. Varcando la porta di casa aveva lanciato a se stesso delle scommesse e ora gli sembrava che quei traguardi non avessero più senso, che si fossero dissolti in una bolla di sapone. Ormai la prospettiva di superare ogni ostacolo, anche il più grande che la vita gli aveva messo di fronte grazie alla passione per un sogno, gli sembrava una sciocchezza. Era seduto lungo il molo, immerso in questi pensieri, quando incontrò Maurizio che lo scambiò per un pescatore da cui si procurava il pesce per il suo ristorante. Chiarirono l’equivoco e, quasi per rimediare, cominciarono a parlare ognuno di sé. L’amarezza di Marco era così evidente che Maurizio gli disse: “Vieni, ti porto in un posto che di sicuro conosci bene”. Lo portò al ristorante in riva al mare dove Marco disse con meraviglia che lui in quel posto non c’era mai stato. Maurizio lo contraddisse: “Ti sbagli, ci sei stato. Questo è il posto che io e mia moglie sognavamo di comprare fin da giovani, per fare quello che ci piace fare, invecchiare cullati dall’eterno movimento del mare e diventare esperti nell’arte della cucina. Questo, Marco, è il luogo di un sogno per il quale abbiamo lottato, affrontato compromessi, impiegato soldi, tempo, lacrime. Ciò che non si rimpiange mai, te lo assicuro, è la fatica che ti è costata arrivarci. Anzi, per noi l’ha reso ancora più prezioso. Questo è veramente un posto che tu conosci bene. Pensaci bene prima di abbandonarlo, perché niente reca frutti più dolci dell’avere una passione e vivere per quella. I soldi, la tranquillità del quieto vivere, non compenseranno mai ciò che perdi abbandonando il tuo sogno”. Poi lo portò dentro il locale, lo presentò alla moglie e lo invitò a mangiare con loro. Da allora Marco diventò un frequentatore assiduo di quella casa, dipinse per questi amici molti quadri, e siccome il locale era frequentato anche da intenditori, presto si ritrovò coronato dalla fama e circondato dalla ricchezza di poter svolgere con profitto un’attività che adorava. Maurizio ci aveva fatto accomodare in saletta, in una piccola ala del ristorante separata dal resto del locale. Ci allietò subito con un aperitivo a base di vino bianco spumante secco accompagnato dalla mitica “Tavolozza”, piatto coniato per Marco, un misto di carpacci di pesci diversi accompagnati da melone e menta, il tutto a circondare una mousse di caviale avvolto in gialle scaglie di limone. Ci colpì l’esplosione di colori che occupava tutta la nostra visuale quasi ipnotizzandoci, come se non esistesse null’altro in quell’istante ad occupare anche una piccola parte della nostra attenzione. Maurizio fu molto contento di questa nostra osservazione: secondo lui la classifica dei cinque sensi andava completamente rivista a favore del gusto, che, ci spiegò, non è solo questione di bella presentazione o di “è buono, o non è buono”, ma comprende molto di più, ossia tutta una gamma di sentimenti diversi da palato a palato. Gli piaceva pensare che, come il quadro dell’artista assume significati diversi secondo chi lo guarda, così i suoi piatti assumevano odori, sapori e colori diversi secondo la persona che li gustava. A volte gli capitava persino di creare una variante di un piatto, per un cliente che gli aveva ispirato qualcosa o evocato un ricordo. Francesca a fine cena ci disse: “Maurizio mi piace, è una delle poche persone che comprendono il senso dello sfumato, dell’incerto, del probabile, e lo mettono in conto, al contrario delle troppe persone per le quali una cosa o è bianca o è nera, o sei “sordo” o sei “normale”. Sei normale e hai diritto a vivere in tutti i modi possibili, oppure non lo sei, e allora devi vivere ai margini...”. Ancora oggi dopo quasi dieci anni, l’amicizia tra noi non si è dissolta, forse anche perché rinsaldata dalle difficoltà che condividiamo, da storie simili nelle loro diversità. Sto aspettando Francesca che torna da un viaggio in Inghilterra. È stata invitata ad assistere ad un corso per il perfezionamento della formazione di bambini e ragazzi non udenti. Come sempre, ci recheremo a Viareggio, dove Marco ci aspetta per festeggiare il successo della sua ultima mostra. Brinderemo insieme nella casa tutta nostra che ho progettato cinque anni fa e che è divenuta il nostro punto d’incontro. Magari non ci vediamo per un mese di fila, poi uno di noi riattiva i contatti e ci si ritrova insieme nella casa vicino al mare, ansiosi di raccontarci esperienze di cui c’eravamo privati per troppi anni. Inverno. Un pomeriggio di fine settimana. C’è un sole pallido, il vento agita gradevolmente le onde e sfiora i nostri volti con alito freddo. Camminiamo insieme sopra la spiaggia. Ascoltiamo il fruscio che fa la risacca ribaltandosi sopra la sabbia, i gridi improvvisi dei gabbiani, i tintinnii dei vetri e delle stoviglie in un ristorante sul mare dove stanno apparecchiando per la cena. E ci meravigliamo ogni volta per i dolci rumori di cui condividiamo l’ascolto. E quando la vita costringe uno di noi a bere alla fonte del dolore, lo stemperiamo piano, senza forzature, con la vicinanza, certi del fatto che non è importante udire, vedere, vivere in modo perfetto, bensì avere uno scopo, una meta, chiunque siamo e in qualunque modo siamo fatti. Consapevoli che, nel mare, più che il canto delle sirene, è affascinante la rotta verso il porto comune in cui approdano le nostre parole.


*Giuseppe Bruni, vive a Pistoia, dove esercita la professione di psicologo e psicoterapeuta. È autore di testi a carattere divulgativo e scientifico.







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